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3 aprile 2013

Ma l’Islanda è proprio un modello?

Questo è un articolo del 2012. magari qualche intellettuale da salotto “antagonista” può provare a leggerlo (è scritto in modo semplice) così può smetterla anche con ‘sta storia dei poveri Islandesi e di quanto sono fichi.

ISLANDA, UNA SOLUZIONE ALLA CRISI?
Il ruolo dei fondi pensione nella crescita speculativa, nel crollo e nel ‘salvataggio’ dell’economia islandese

di Francesco Macheda*

Poco si è saputo su come si è affrontata la situazione della crisi economica in Islanda e sul ruolo delle forze sociali in campo. Pensiamo sia di interesse generale avere informazioni ed un punto di vista critico da cui estrapolare riflessioni e connessioni con la realtà che quotidianamente ci troviamo a confrontarci. Abbiamo richiesto a Francesco Macheda, che conosce ed analizza la realtà di quel paese, un breve quadro sulla situazione. In particolare lo scritto che pubblichiamo pone un forte accento sul ruolo che svolgono in questa vicenda i fondi pensione e dell’intreccio fra il loro sviluppo e gli investimenti speculativi. Non manca nello scritto una riflessione sul peso che questi fondi assolvono nel modificare il rapporto fra lavoro e capitale e la collocazione che hanno e sempre più dovranno avere quelle organizzazioni dei lavoratori che hanno sostenuto e sostengono tuttora la scelta di un sistema integrativo al salario di tipo privatistico.

Uno dei miti della stampa negli ultimi anni è il rifiuto del governo islandese di rimborsare il debito alle banche, col suo popolo in grado di tenere in scacco il sistema finanziario internazionale. Sarebbe bello se tutto ciò fosse vero. Purtroppo, non solo non lo è, ma la realtà è che a saldare ogni centesimo (con relativi interessi) dei debiti accumulati siano stati in massima parte i lavoratori islandesi, i cui fondi pensione sono stati impiegati per ricapitalizzare il sistema bancario fallito e nazionalizzato, in vista della sua futura, e già avvenuta, riprivatizzazione.
I fatti. Nell’ottobre 2008, all’indomani del crollo di Lehman Brothers, le istituzioni finanziarie islandesi, già pesantemente indebitate con gli investitori esteri, non riescono a far fronte ai propri impegni a causa del congelamento del credito sui mercati finanziari globali. I tre istituti di credito nazionali, privatizzati pochi anni prima, falliscono e vengono ‘nazionalizzati’ dal governo, mentre 340 mila ‘risparmiatori’ inglesi e olandesi, che avevano investito nella filiale estera (Icesave) di una delle banche fallite (Landsbanki) attratti da altissimi rendimenti, rimangono momentaneamente con un pugno di mosche a causa della vittoria del No al referendum indetto dopo mesi di proteste popolari e riguardante il rimborso del governo islandese a Gran Bretagna e Olanda.
Sul versante interno, il Fondo Monetario Internazionale ‘offre’ il proprio aiuto all’Islanda tramite la concessione di un prestito di poco più di 2 miliardi di dollari, necessari a ripianare i suoi debiti. Contrariamente a quanto avvenuto in Grecia e Irlanda, i sindacati islandesi sostengono il nuovo governo rosso-verde ad accettare il ‘piano di aggiustamento strutturale’ prescritto dal Fondo, la cui assistenza è vista dalla Confederazione Islandese dei Lavoratori (l’unica esistente nel settore privato) come “un passo chiave per ripristinare la confidenza e stabilizzare l’economia”. Con questo piano, sulla testa di ogni cittadino graverà una cambiale di circa diecimila dollari, con cui salvare le istituzioni finanziarie che hanno condotto al collasso finanziario.
Nel giugno 2009, governo, sindacato e organizzazioni padronali siglano un patto corporativo che recepisce in toto le indicazioni del FMI. Gli obiettivi sono: “ricapitalizzazione del sistema bancario” tramite risorse pubbliche (socializzazione delle perdite) in vista della sua de-statalizzazione (privatizzazione dei profitti); “stabilizzazione della moneta” per scongiurare la fuga di capitali, da attuarsi con un’ulteriore razionamento del credito, e quindi con lo strozzamento della produzione nazionale; “consolidamento della posizione fiscale”, pesantemente peggiorata dall’iniezione di denaro pubblico a favore delle banche, attraverso l’aumento delle imposte, il taglio alla spesa sociale, dei salari e degli investimenti pubblici.
La manovra lacrime e sangue viene portata avanti con successo, i debiti saldati, e le banche rigettate a prezzo di favore in mano a istituti finanziari (privati) esteri. La parte più consistente del debito, dunque, è stato ripagato eccome, tanto che in un rapporto dell’ottobre 2011 il Fondo Monetario Internazionale scrive: “L’Islanda ha completato con successo il programma supportato dal Fondo. Gli obiettivi chiave sono stati raggiunti. Le finanze pubbliche sono state messe su un sentiero sostenibile, il tasso di cambio stabilizzato e il settore finanziario ristrutturato”. Non solo. Il nuovo scenario ha mutato radicalmente la disputa riguardante il saldamento del debito di Icesave nei confronti degli speculatori inglesi e olandesi. Grazie alla triade nazionalizzazione-capitalizzazione-riprivatizzazione, infatti, “entro la fine del 2012 il patrimonio della nuova Landsbanki sarà sufficiente a coprire i debiti della vecchia gestione privata e risarcire così le perdite dei risparmiatori inglesi e olandesi. Per questo motivo”, continua il Ministro dell’Economia islandese, “cambia radicalmente la nostra interpretazione della disputa interna ad Icesave. Non c’è più alcun motivo di contendere”. In soldoni, Landsbanki, la banca ricapitalizzata dal governo e ora privatizzata, si appresta a saldare anche l’altra porzione di debito, grazie alle riserve rastrellate alla collettività. Cambia la forma, ma la sostanza è che saranno sempre i cittadini islandesi a farsi carico delle insolvenze bancarie, nonostante la loro contrarietà espressa col referendum.
Il supporto sindacale ha giocato un ruolo fondamentale nel ‘salvataggio’ dell’economia del paese da parte del FMI, sia da un punto di vista fiscale, che monetario. Da un lato, sebbene dal 2008 al 2010 il tasso di occupazione dei lavoratori islandesi, congiuntamente ai loro livelli salariali, abbia conosciuto un collasso senza pari tra i paesi dell’area OCSE, il sindacato ha garantito la più completa pace sociale, oltre che deflazione salariale mediante la chiusura di accordi retributivi costantemente al di sotto dell’inflazione. È lo stesso FMI a riconoscere la centralità del sindacato concertativo islandese ai fini dell’implementazione del suo piano: “Il governo si è accordato con le parti sociali riguardo il pacchetto fiscale, e buoni progressi sono stati compiuto nel delicato compito di ristrutturare le banche fallite. Il governo ha compiuto tagli alla spesa, incrementi alle tasse per tenere il deficit sotto controllo, e ha implementato un piano di aggiustamento che ha il supporto dei sindacati.”
L’aspetto più contraddittorio, tuttavia, risiede nel versante monetario, e specificamente nell’accondiscendenza sindacale ad utilizzare i fondi pensione occupazionali – già pesantemente svalorizzati dal collasso del mercato azionario nazionale e internazionale dov’erano investiti – al fine di ricapitalizzare le banche fallite, e creando la precondizione per la loro successiva privatizzazione. Prima di analizzare come il salario differito dei lavoratori abbia contribuito a salvare e ripristinare la struttura finanziaria che ha condotto l’economia islandese al suo collasso, è necessario compiere un passo indietro, esaminando il loro ruolo all’interno del paese e come, attraverso la loro gestione, il sindacato sia stato un attore primario nel gettare le basi della finanziarizzazione economica dell’Islanda.

Fondi pensione e crescita speculativa
I sistemi pensionistici sono visti generalmente come un mezzo per prevenire la povertà una volta terminata la carriera lavorativa, garantendo un reddito nella fase finale della vita. Laddove il pubblico conserva ancora un ruolo preminente nella fornitura del welfare, come nell’Europea continentale e quindi in Italia, troviamo sistemi a carattere contributivo: qui, una parte del reddito della popolazione lavoratrice viene prelevata attraverso la tassazione e va a finanziare le pensioni dei lavoratori a riposo. Quando invece è il privato a farla da padrone, come nei paesi tradizionalmente liberali come Regno Unito e Stati Uniti, troviamo sistemi a capitalizzazione, dove una quota del salario dei lavoratori in attività confluisce all’interno di istituzioni finanziarie, i fondi pensione, che acquistano titoli azionari dal circuito borsistico. Dal profitto speculativo di questi titoli va a dipendere l’assegno pensionistico dei lavoratori a riposo. Mentre nel primo sistema c’è dunque una ridistribuzione di reddito all’interno della classe lavoratrice, nel secondo la funzione protettiva e ridistributiva del welfare lascia spazio all’infiltrazione della finanza nella riproduzione sociale dei lavoratori, poiché le pensioni diventano una frazione del capitale speculativo sociale periodicamente realizzato.
È chiaro come tra sviluppo dei fondi pensione e crescita degli investimenti speculativi vi sia una forte connessione, non solo perché la profittabilità di entrambi dipende dall’andamento dei listini borsistici, ma anche e soprattutto perché la trasformazione di flussi di reddito futuri in assets scambiati sotto forma di azioni è fortemente interrelato all’ascesa della finanza. Il processo parallelo di privatizzazione del welfare, se da un lato ha fatto sì che i lavoratori e le loro famiglie siano venuti a dipendere dal mercato finanziario per ricevere le loro pensioni, dall’altro ha riversato una quota considerevole di risparmi familiari all’interno dei mercati finanziari, con cui gonfiare bolle da cui realizzare profitti speculativi.
Il caso islandese è emblematico. Decollati alla fine degli anni sessanta dopo che sindacato e padroni hanno barattato i tagli alla spesa sociale con la gestione diretta del salario differito dei lavoratori, il peso del sistema pensionistico privato è progressivamente cresciuto a scapito di quello pubblico, al punto che l’importanza del sistema a capitalizzazione non ha eguali tra i paesi ‘social-democratici’ scandinavi, superando addirittura il peso di quello inglese e statunitense all’interno delle loro economie. Dal 1980 al 2007 gli assets dei fondi pensione islandesi hanno conosciuto una vera esplosione passando dal 7 al 133 percento del PIL (in Italia, Francia, Germania, Belgio tale quota rimane sotto il 5 percento, mentre nelle economie più finanziarizzate come Canada, Gran Bretagna, Irlanda e Stati Uniti tale valore si aggira tra il 50 e l’85 percento), fornendo una fonte di liquidità essenziale ai mercati finanziari del paese. Nel 2003, mentre nelle economie più liberiste il rapporto tra assets dei fondi pensione e capitalizzazione di borsa oscillava tra il 55 e il 65 percento, in Islanda il loro peso all’interno del mercato speculativo nazionale superava il 150 percento.
La crescita dei fondi pensione all’interno del mercato azionario è quindi il fenomeno attorno cui ruota la finanziarizzazione dell’economica islandese, la cui capitalizzazione di borsa è cresciuta dal 7 percento nel 1994 al 220 percento nel 2006, il valore più alto al mondo; al contempo, la quota di profitti finanziari sul totale dei profitti schizzava dal 15 al 58 percento. Non da ultimo, i fondi pensione hanno contribuito significativamente ad alimentare la bolla immobiliare in Islanda. Sebbene la crescita dei prezzi delle case era causata principalmente dall’entrata nel settore delle banche appena privatizzate, i fondi pensione erano coloro che, di fatto, rifornivano di liquidità il mercato, investendo nelle obbligazione ipotecarie emesse dagli istituti di credito. L’aspetto paradossale della vicenda è che bassi tassi d’interesse ipotecari, sebbene avessero potuto aiutare le famiglie nell’acquisto dell’immobile, avrebbero significato rendimenti pensionistici risibili. Al contrario, interessi ipotecari alti, sebbene di fatto le strozzassero di debiti, come effettivamente avveniva, garantivano ritorni pensionistici soddisfacenti.

Sindacato, pace sociale
e stabilizzazione dell’economia
La razionalità dei fondi pensione ridefinisce radicalmente il ruolo e gli obiettivi degli attori sociali che li gestiscono assieme alle associazioni padronali, i sindacati – non più una semplice istituzione volta a proteggere gli interessi dei lavoratori, ma anche e soprattutto un’istituzione il cui obiettivo principale è investire in maniera profittevole i loro redditi in borsa -. I leader sindacali che amministrano i fondi pensione con i padroni nella contrattazione collettiva, siedono pertanto in entrambi i lati delle trattative. Ciò significa trovarsi immersi in un colossale conflitto d’interesse. Da un lato, come rappresentanti dei lavoratori, dovrebbero contrattare politiche espansive tendenzialmente inflazionistiche favorevoli al lavoro, come salari più alti e maggiori investimenti pubblici. Dall’altro, come membri di un’istituzione finanziaria (i fondi pensione), i dirigenti del sindacato divengono fortemente connessi alla comunità finanziaria nel sostegno a misure restrittive (deflazione) e neoliberali, al fine di accrescere il valore dei mercati azionari in cui i fondi vengono investiti. In altri termini, l’integrazione all’interno di un’istituzione finanziaria, la cui ricchezza è denominata esclusivamente in termini monetari, ridefinisce le relazioni tra capitale finanziario e lavoro, entrambi con ragioni materiali e oggettive per opporsi in maniera convinta all’inflazione e ad acconsentire all’‘apertura’ del mercato al fine di trovare opportunità più profittevoli dove investire. Ciò significa che il sindacato, ove immerso nel governo dei fondi pensione, non costituisce un soggetto passivo nella fase neoliberista di finanziarizzazione dell’economia e smantellamento della produzione. Piuttosto, rappresenta un attore fondamentale di questa transizione, in grado di garantire la stabilità sociale (bassa e stabile inflazione) su cui erigere l’edificio finanziario da cui, in ultima istanza, dipende il rendimento delle pensioni: rafforzando la ‘credibilità’ dell’economia, il sindacato aiuta i mercati nazionali ad attrarre speculatori stranieri così come a guadagnare l’accesso al credito dai mercati internazionali.
Il caso islandese rispecchia appieno questo scenario. Il collasso dell’architettura finanziaria internazionale istituita a Bretton Woods, seguito dalla crisi di profittabilità del suo settore economico trainante, la pesca, è stato fronteggiato dalla classe padronale islandese rispolverando l’arma tradizione della svalutazione al fine di rendere le esportazioni più competitive. Tuttavia, la piena occupazione unita alla conflittualità della classe lavoratrice, una tra le più combattive per tutto il dopoguerra, rendevano vani i tentativi dei capitalisti di scaricare l’aumento dei prezzi sui salari. Questa situazione ha condotto ad un’esplosione dell’inflazione, arrivata a superare l’80 percento a metà degli anni ‘80. La spirale dei prezzi ha deteriorato non solo la posizione del settore ittico islandese sui mercati internazionali, ma ha pure eroso il valore dei fondi pensione investiti per lo più in titoli di stato, mutui ipotecari e prestiti elargiti ai lavoratori. La sola maniera (capitalista) per venire fuori da quest’impasse fu mutare il trade-off tra piena occupazione e bassa inflazione. Se per tutto il dopoguerra questo dilemma venne risolto a favore dell’occupazione, dalla fine degli anni ottanta sindacati, governo socialdemocratico e classe padronale lo risolsero con la stabilità dei prezzi. Mancava solo da pacificare la classe lavoratrice islandese.
L’inizio degli anni ’90, apre la strada alla stagione neoliberista in Islanda. Dopo una concentrazione di potere al suo interno, una serie di patti corporativi tra sindacato, padroni e governo socialdemocratico ebbero l’effetto di piegare la classe operaia islandese, che in pochi anni passò dall’essere la più combattiva alla più remissiva dell’emisfero occidentale. La disoccupazione riapparve nel paese dopo oltre mezzo secolo e i salari furono drasticamente tagliati, permettendo all’obiettivo sindacal-padronale di essere finalmente raggiunto: l’inflazione, dopo essere scesa di quasi quaranta punti, radeva praticamente lo zero, la valuta fu stabilizzata e il mercato finanziario completamente liberalizzato e rimpolpato dai massicci flussi di capitale speculativo estero, attratto dagli alti tassi d’interesse fissati dalla banca centrale (per tenere sotto controllo l’inflazione, ovviamente…) e dalla stabilità socio-economica del paese.
L’accordo sindacale all’ondata di politiche neoliberali non risiede solamente in motivazioni ideologiche. Come accennato, l’alta inflazione degli anni ’80 e quindi i tassi d’interesse negativi sui depositi bancari, uniti alla mancanza di opportunità interne d’investimento, aveva pesantemente arrestato l’accumulo dei fondi pensione controllati da sindacati e padroni, gli stessi attori che si apprestarono ad aprire la stagione concertativa appena descritta. Tali fondi, tuttavia, erano arrivati a costituire una delle maggiori fonti di risparmio del paese e investiti massicciamente nella prima banca ad essere quotata in borsa nel pieno della stagione neo-corporativa, Íslandsbanki. Ciò significa che il sindacato, mentre sedeva ai tavoli negoziali con l’obiettivo (teorico) di strappare miglioramenti a favore dei lavoratori, cooperava con l’élite finanziaria all’interno del consiglio di amministrazione della più grande banca del paese, creando le condizioni più idonee per l’aumento dei profitti finanziari. Come ha dichiarato fieramente il presidente della Federazione Islandese del Lavoro durante l’epoca neocorporativa, Ásmundur Stefánsson: “il sindacato si è stufato del conflitto e oggi è una delle forze principale del paese…Non c’è dubbio che abbiamo gestito e regolato molte cose negli ultimi anni”. Sicuramente, ha gestito, azzerandola, la conflittualità operaia sacrificata sull’altare della pace sociale, primo tassello per la riduzione dell’inflazione e per l’aumento dei tassi d’interesse (mantenuti costantemente ben al di sopra degli altri paesi) al fine di attrarre capitale speculativo e indebitarsi dall’estero a prezzi di favore; inoltre, il sindacato concertativo non pare abbia espresso una grande opposizione alle dismissioni di quasi cento imprese pubbliche le quali, una volta privatizzate e quotate in borsa, potevano fornire opportunità di investimento più lucrativo. In breve, l’idiosincrasia di interessi forgiata sul capitale speculativo aveva reso pressoché indistinguibili gli interessi tra capitalisti finanziari ed élite sindacale, la stessa che dalla metà degli anni ’90 ha contribuito a deregolamentare le opportunità d’investimento dei fondi pensione, dando il via libera al loro travaso all’interno del settore bancario, finanziario ed immobiliare, sia nazionale che estero.

L’impressionante crescita dell’Islanda dalla fine degli anni ’90 ha permesso al sindacato islandese di ottenere consistenti miglioramenti salariali, sia diretti che differiti, soddisfacendo le aspettative dei lavoratori. La legittimità sociale e politica presso questi ultimi, d’altra parte, non strideva con la credibilità accordata al sindacato dai circoli finanziari e dai governi liberisti. Questa strategia, tuttavia, presumeva la sostenibilità di questo modello di crescita che, all’interno di un contesto di compatibilità capitalistiche, avrebbe dovuto conciliare le domande dei lavoratori con le esigenze di governo e padroni. La crisi esplosa nel 2008, tuttavia, ha rivelato la vera natura dell’economia islandese, il cui indebitamento era estremamente dipendente dall’accesso ai mercati finanziari internazionali. Con l’esplosione della crisi dei mutui subprime e la successiva chiusura dei rubinetti creditizi, l’interno sistema è collassato come un castello di carta, mostrando quanto effimera fosse la conciliazione di interessi tra capitale finanziario e lavoro.

I fondi pensione e la riproduzione
del capitale finanziario
Arrivati a questo punto, non risulta difficile comprende non solo perché il sindacato islandese abbia garantito una resa senza condizioni al piano del Fondo Monetario Internazionale, ma anche perché abbia acconsentito di utilizzare i fondi pensione per salvare lo stesso sistema finanziario che, in definitiva, ha condotto l’Islanda prima verso la stagnazione, poi verso la finanziarizzazione e infine al collasso. Il suo coinvolgimento all’interno dei meccanismi finanziari attraverso l’industria pensionistica privata ha generato un grado di identificazione dei suoi dirigenti con le politiche dei governi liberisti, incoraggiandoli ad adottare strategie affini. In quanto gestore di un’istituzione speculativa, il sindacato si è trovato rinchiuso in un circolo vizioso, dove ogni azione conflittuale poteva e può destabilizzare l’economia, mentre il capitale speculativo è pronto a punire i comportamenti che non assecondano la ‘stabilità’ pretesa dai mercati.
In seguito al collasso bancario nell’ottobre 2008, i fondi pensione paiono essere l’unica fonte di liquidità del paese. Immediatamente, sindacati, associazioni padronali, governo e Banca centrale decidono di liquidare gli investimenti dei fondi detenuti in valuta estera (sicuramente più pregiata di quella nazionale, nel frattempo crollata di oltre il 60 percento) nel tentativo di rafforzare la moneta islandese e sostenere il mercato azionario interno. Tuttavia, la borsa della piccola isola islandese è ridotta ad un cumulo di macerie. Il vero obiettivo è utilizzare i fondi pensione per acquistare titoli del tesoro e depositi per allentare le pressioni finanziarie del paese, saldando il debito delle banche. Sebbene le agenzie di rating internazionali attribuiscano al debito sovrano islandese la nomea di titolo spazzatura, i fondi pensione incrementano di oltre dieci volte il possesso di titoli dell’Islanda, il cui governo rosso-verde si è nel frattempo accollato il costo del salvataggio delle tre banche appena fallite, per poi riprivatizzarle una volta rimpinguati i caveau col salario differito dei lavoratori. L’importanza e il compito dei fondi pensione islandesi, d’altra parte, era stato previsto con preoccupante lucidità dal FMI, che pochi mesi dopo il crollo sosteneva come “il sistema dei fondi pensione in Islanda sia basilare quando c’è da considerare la sostenibilità fiscale sul medio termine. Qui, i fondi pensione superano il 100 percento del PIL e ciò significa che non c’è alcun bisogno di aggiustamenti fiscali nascosti.” Bisogna riconoscere al Fondo una certa coerenza, se è vero che i fondi pensione hanno ricapitalizzato gli istituti di credito, ridotti alla rovina, alla luce del sole.
La vicenda islandese, seppur nella sua specificità, ci mette in guardia dalle sirene provenienti da governo e sindacati concertativi italiani riguardo la bontà dei fondi pensione. Data la stagnazione dei profitti nei settori produttivi dell’economia, risulta estremamente difficile che tali fondi vadano a finanziare progetti i cui primi beneficiari siano i legittimi proprietari, i lavoratori. Piuttosto, sviluppo della previdenza integrativa significa che il nostro salario differito sarà gettato all’interno dei mercati finanziari da cui speculare un profitto col quale reperire (in teoria) le risorse per la nostra vecchiaia. Il vero obiettivo, sia chiaro, oltre che inflazionare il mercato finanziario, è quello di accresce il potere del capitale sul lavoro.
Primo, l’ingresso dei fondi pensione nel capitale d’impresa significa che un numero crescente di lavoratori assumeranno la prospettiva del capitale, dal momento che una loro eventuale azione conflittuale vorrebbe dire un crollo del titolo azionario dell’impresa (e quindi una diminuzione del rendimento della pensione), quando non addirittura il disinvestimento del fondo stesso. Ci troviamo di fronte alla perversione per cui il lavoratore diventa ‘lavoratore’ e ‘padrone’ allo stesso tempo, dove laumento dei profitti è nel suo stesso ‘interesse’.
Secondo, la ricerca di nuove opportunità d’investimento da parte dei fondi pensione spingeranno i sindacati (più di quanto non facciano già) ad assecondare la privatizzazione del settore pubblico, poiché dal suo smantellamento potrebbero giungere opportunità d’investimento più lucrative.
Terzo, lo sviluppo dei fondi pensione comporterà un’ulteriore deregolamentazione finanziaria e maggiore facilità di fuga dei risparmi dei lavoratori all’estero, il cui effetto potrebbe essere devastante: se, da un lato, il salario differito non potrà essere utilizzato per finanziare investimenti produttivi interni, dall’altro potrebbe svalorizzarsi più facilmente a causa della turbolenza dei mercati finanziari internazionali.
Infine, il flusso dei fondi pensione all’interno dei mercati speculativi condurrà ad un inasprimento delle strette creditizie con cui strozzare l’economia reale. Il binomio deflazione-alti tassi d’interesse, infatti, se da un lato ha in vantaggio di accrescere i rendimenti dei titoli speculativi, così come offrire la possibilità di acquistare azioni estere a prezzi relativamente minori, dall’altro è la premessa per assistere ad un aumento del numero di fallimenti, dismissioni, aumento della disoccupazione e ulteriore repressione salariale.
Francesco Macheda

*Francesco Macheda è dottorando in ‘analisi delle trasformazioni economiche e sociali’ all’università politecnica delle Marche.